Ero rimasto a una F1 vista come una monoposto. Un’auto da corsa con cui team e Case costruttrici si spingevano al limite della ricerca tecnologia, del cavillo regolamentare, per andare più forte dell’avversario e vincere. Una F1 che sfruttava le gare riuscendo magari anche a creare del travaso tecnologico tra pista e auto stradali. Qualcuno le ha definite i cartelloni pubblicitari viaggianti più veloci al mondo. Definizione che avrebbe fatto felice uno scrittore come Ennio Flaiano. Ma con i soldi degli sponsor ci si paga lo sviluppo tecnologico e si pagano gli stipendi.
Ora nel post-Covid e nell’era BLM, a seguire la Mercedes, la F1 diventa anche (e soprattutto) una piattaforma prominente usata per messaggi politici aziendali. E’ la F1 del 2020. Povera di contenuti e idee tecnologiche. Una F1 dove tutti si amano e si vogliono bene. Una F1 allineata al mainstreaming. Non più monoposto che ci fanno sognare per contenuti, diversità e forme, ma piattaforme sempre più uguali che cercano di parlare di diversità in altri campi visto che la propria è andata perduta via via in regolamenti tecnici aridi e per mancanza di visione futura. Per fortuna domenica si ricomincia. Per fortuna (forse) da domenica parlerà la pista.
Che pazzi erano quei team e piloti agli albori del Mondiale con auto dipinte nei colori motoristici nazionali che usavano le corse per correre e per sviluppare tecnologie. Gli italiani in rosso. I francesi in azzurro. Gli scozzesi in blu. Gli inglesi in verde. I belgi in giallo. I tedeschi in argento con le carrozzerie sverniciate dal bianco pesante. Correre per correre… E vincere. Da febbraio a oggi, invece, il vero senso della pista pare sia andato dimenticato.
Riccardo Turcato