Nel paddock non si parla più della morte di Jules Bianchi e un paio di persone hanno proprio che è meglio tacere e andare avanti. Il GP del Giappone dello scorso weekend ha segnato il secondo anniversario dall’incidente (e a tutti gli effetti dalla morte) del giovane pilota francese. Sulle tribune si sono visti degli striscioni a ricordarlo (perché gli appassionati non dimenticano) e alcuni piloti hanno twittato ricordandolo, ma nessuno ne ha veramente parlato. Il tutto mentre c’è in atto un’azione legale da parte di Philippe Bianchi contro le autorità della F1, che secondo la famiglia avrebbero nascosto le informazioni sull’incidente.
John Booth, ora in Toro Rosso e nel 2014 team boss di Bianchi in Marussia, ha detto al giornale olandese De Telegraaf che non voleva parlarne. “E’ un capitolo della mia vita che ho chiuso“, avrebbe risposto. E nessun commento anche da Max Verstappen, che a fine 2014 stava iniziando la sua carriera in F1 con le libere del venerdì. “Se si continua a parlarne, non si chiude mai il capitolo“, ha detto il pilota della Red Bull. “Personalmente cerco di pensarci il meno possibile“. E se la cosa può essere comprensibile per quanto riguarda il 19enne Verstappen, anche per esorcizzare il rischio con cui ogni pilota si confronta ogni volta che scende in pista, è davvero sconcertante la reazione di John Booth. Non sappiamo cosa sia successo e se ci siano o meno delle responsabilità o delle informazioni che sono state nascoste o taciute. Ma dette da un uomo della sua età, con la responsabilità che aveva allora nel team Marussia, certe frasi disgustano: comoda chiudere il capitolo, davvero un bell’esempio di senso di responsabilità…
Barbara Premoli