Mondiale F1 2019 a un terzo del suo cammino, il tonante 7 su 7 firmato Mercedes da Melbourne a oggi, e una sola immagine non di colore argento nelle pupille: quella macchia rossa che al GP del Canada, il 9 giugno, sfida il dominio tedesco restando al comando fin dal via. Poi l’errore. La Ferrari di Vettel tira dritto alla chicane destra-sinistra a circa metà circuito e vola a 200 all’ora sull’erba dove – non si sa come – riesce a evitare il testacoda. Quindi torna in pista come una meteora e finisce per chiudere la traiettoria alla Mercedes di Hamilton, che da un tempo interminabile lo segue a un respiro e, capendo che la Rossa quel giorno è troppo veloce, non può altro che attendere un errore del suo pilota. Il resto è cronaca. Indagine dei commissari: penalizzazione di cinque secondi comminata rapidamente. Traguardo con Vettel davanti a Hamilton ma soltanto per spettatori e televisioni: per il cronometraggio ufficiale le posizioni sono invertite.
E il seguito: Vettel arrabbiatissimo che evita addirittura di raggiungere il parco chiuso; si precipita alla sua hospitality e, andando verso il podio che non può mancare pena il rischio di ulteriore sanzione, si ferma al parco chiuso appena disertato e inverte i pannelli 1 e 2 fra la Mercedes di Hamilton e l’unica Ferrari parcheggiata lì di fianco, quella di Leclerc terzo sotto la bandiera a scacchi. Quindi podio con muso lungo ed esplosione delle polemiche incrociate: ma Vettel era davvero da penalizzare? Non era meglio lasciare impunito un gesto competitivo che in altri tempi la Formula 1 avrebbe certamente tollerato e di cui – in questa selva di decisioni disciplinari – oggi si sente addirittura la mancanza?
Il tema è un classico dello sport: rigore o non rigore? Volontarietà oppure no? Materia per discussioni infinite al bar, ma non da oggi in una Formula 1 che a penalizzazioni e ricorsi e passaggi interminabili in tribunale è abituata fin dalla notte dei tempi. Come non ricordare, infatti, l’aggancio fra le due McLaren di Senna e Prost alle ultime battute del GP Giappone 1989? I due erano i mattatori della stagione e stavano giocandosi un titolo inacidito da risse personali e sospetti di ogni tipo. Dopo l‘aggancio alla chicane prima dei box di Suzuka, Prost fuori dalla monoposto ferma e Senna invece via: partito di nuovo, verso una rimonta che lo porterà alla vittoria e quindi alla speranza ancora aperta per l’iride. Ma la giustizia sportiva disse no: penalizzazione a Senna per ripartenza irregolare; vittoria annullata; Prost campione del mondo. Iniziò così una faida destinata a durare ancora un anno. Al GP Giappone 1990 la McLaren di Senna tamponò Prost, ora su Ferrari, alla prima curva: Mondiale finito, Ayrton campione e vendicato nonostante l’obbligo successivo di espiare con l’autorità sportiva che minacciò addirittura di non rinnovargli la licenza per l’anno successivo.
E più recentemente: Spagna 2016. Le due Mercedes dominatrici scattano dalla prima fila e Rosberg brucia Hamilton alla prima curva. Meno di un chilometro dopo Lewis va all’attacco cieco: il compagno lo chiude sull’erba e si innesca il patatrac che ferma entrambe le monoposto. In questo caso l’inchiesta è interna. Toto Wolff e Niki Lauda sentono i piloti: ognuno adduce le proprie ragioni. Ma Lauda ha le idee chiare: due Mercedes ritirate, qualcuno deve averne colpa. E questo qualcuno, secondo lui, è Hamilton: avrebbe dovuto pazientare un po’ di più, invece di attaccare a testa bassa. Nessuna sanzione regolamentare. Però Hamilton pagherà perdendo il Mondiale per soli 5 punti su Rosberg. Se avesse atteso qualche curva per attaccare e superare il compagno in Spagna, come probabilmente sarebbe riuscito a fare, il Titolo sarebbe stato suo.
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