Sono passati 24 anni, molti di quelli che leggono magari non erano ancora nati. Eppure non c’è persona al mondo che quando dici Ayrton Senna non abbia un sussulto. Persino chi non era e non è appassionato di F1. Per me – e scrivo volutamente in prima persona – c’è un “prima” e un “dopo” Senna, ma non c’è un 1° maggio 1994. Cancellato. No, come non l’avessi vissuto. Eppure sono cresciuta a pane e Formula 1, non c’era domenica che non fossi incollata alla TV, a bermi le cronace di Poltronieri e Palazzoli, le interviste di Zermiani. C’ero anche quella domenica, me lo dicono in famiglia perché eravamo tutti lì. Ma io non ne ho ricordo di quel momento, né del resto della giornata.
Ho nella testa i video di quel giorno rivisti in TV, le videocassette, i DVD, le immagini cercate negli archivi per i giornali in cui ho lavorato, le parole e le foto di tanti libri letti, le splendide mostre viste in questi 24 anni. Ultima, quella di Ercole Colombo e Giorgio Terruzzi a Monza, splendida, fatta col cuore, così come quella al Museo Lamborghini. Eppure anche in quelle occasioni ho sentito forte il “prima”, quel giorno mi era estraneo. Lo stesso mi accade ogni volta che vado a Imola e, dopo essere passata a “salutare” Roland, vado al Tamburello, passo dalla statua, la guardo e… la tirerei giù, perché non so chi l’abbia scelta ma non rappresenta assolutamente Ayrton Senna. Lui non avrebbe mai piegato la testa come in una resa. Lui era vita e lotta ed energia inarrestabile, che neppure quel 1° maggio ha fermato, se no 24 anni dopo la sua presenza non sarebbe più così forte.
Ma, da quando lavoro in F1, ci sono stati tre momenti davvero forti: il GP di San Marino 2004, quando alla presenza della sorella Viviane, Gerhard Berger guidò la Lotus di Ayrton, l’immagine della macchina che parte, il rombo del motore, le urla della gente che quasi lo sovrastavano quando passò sul rettilineo. Il GP del Brasile 2007 quando, prima ancora di andare in circuito, mi feci portare al cimitero di Morumbi: nessuno a dare indicazioni, eppure entri e arrivi da lui, una sensazione strana e inspiegabile, perché è un grandissimo prato, non ci sono cartelli, ma è come se lui ti dicesse “Sono qui“. E quando sei lì è ancora più strano, perché senti che lui è ovunque ma non può essere lì sotto.
In tutti questi anni ho assimilato i ricordi di chi l’ha vissuto, Michele [Alboreto] mi ha raccontato ogni attimo della loro amicizia e delle loro avventure, in pista e fuori, fino al dramma di Imola e del viaggio in aereo per riportarlo a casa, a San Paolo, con i suoi colleghi e amici. E tra i ricordi più forti ed emozionanti che conserverò per sempre c’è la conferenza stampa che Ron Dennis tenne al GP del Bahrain 2004. Ero in prima fila e quegli occhi, il tono della voce, dissero molto più delle parole. Ho riascoltato poco fa quella registrazione (a volte conservare è un bene, anche se fa male…), le parole di un uomo che non ha mai smesso di voler bene ad Ayrton, al pilota ma soprattutto all’amico. Qui sotto potete leggere il pezzo che scrissi al ritorno, pubblicato sul “mio” F1 Racing di giugno 2004. Credo che rileggerlo oggi sia il modo migliore per tenere vivo Ayrton Senna in ciascuno di noi e ricordare il valore dell’amicizia. Unico rammarico: che Ron Dennis non sia riuscito a trattenerlo in quella che era la sua casa e lo è ancora, perché basta entrare a Woking, guardare le sue macchine e i suoi trofei per sentire che c’è.
Aprire vecchi cassetti della memoria non è facile, dal vecchio computer escono foto che preferiresti non vedere, sfogli un giornale che è stato un capitolo importante, di crescita ma anche di sofferenza, pensi a tante persone che mancano, incluso Ron Dennis. E un articolo si trasforma in una seduta psicanalitica…
Barbara Premoli