Dal 2000 in poi Rubens Barrichello non aspirò al Titolo con le Rosse solo perché aveva come compagno di team un certo Michael Schumacher, che fece terra bruciata per cinque stagioni di fila. Rubinho, come lo chiamavano a casa sua, lasciò il posto al connazionale Felipe Massa. E il Brasile da corsa continuò a sognare di avere finalmente in casa l’erede di Senna, fino all’iride accarezzata per pochi secondi nel 2008, quando un sorpasso sotto il diluvio negli ultimi 500 metri dell’ultimo GP stagionale, proprio a Interlagos, consegnò il Titolo per un solo punto a Lewis Hamilton. Di quei secondi terribili resta agli archivi l’espressione in mondovisione del papà di Massa, passato in un secondo dalla gioia più sfrenata a una delusione cui non riusciva a credere…
Ma si stava preparando la vera epopea brasileira in F1. Quando a fine anni 70 si affacciò in Brabham un certo Nelson Piquet, il Mondiale si chiese chi fosse. Di lui poche tracce. Carlos Reutemann, campione mai iridato, al termine del GP conclusivo del 1981, perduto il titolo proprio a vantaggio di Piquet, confidò: “Incredibile… Ricordo quando alla Brabham lavorava come tuttofare: mi lucidava la carrozzeria”. Tutto vero. Piquet si conquistò i Gran Premi con il sudore. Si presentò a Bernie Ecclestone con il profilo più basso del mondo, e l’allora titolare del team Brabham lo schierò – ovviamente a costo zero – a fare da sparring partner a Niki Lauda, arrivato l’anno prima dalla Ferrari sull’onda di due titoli che avevano rimesso in linea di galleggiamento la storia del Cavallino. In breve diventò un pilota vero: veloce, preciso, aggressivo ma mai scorretto. Vinto il Mondiale 1981 con uno storico GP finale allestito “all’americana” nel parcheggio dell’hotel Caesars Palace a Las Vegas, si ripeté nel 1983, sempre con la Brabham ma con il turbo BMW diventato imbattibile anche grazie a carburanti più che sospeti. E ora, con due titoli in tasca, tutto era pronto per il più gigantesco duello mono-passaporto che la Formula ricordi: quello con Senna.
Senna il cui cognome era però Da Silva. Senna era quello della madre Neide, vero faro della famiglia. Il giovane l’aveva scritto sul casco fin dai tempi del kart; non l’avrebbe lasciato mai più. Fra i due connazionali fu subito scontro. Piquet non lo sopportava: Senna non chinava la testa; diceva tutto quello che pensava; ma soprattutto aveva le stigmate del mega-campione, un profumo che i piloti fiutano ancor prima che il vento lo porti. Il giovane iniziò a vincere già dal secondo anno nei GP, con una prestazione sontuosa sotto il diluvio in Portogallo 1985. Continuò anche nel 1986 e ’87, pur con una Lotus che era lontana anni luce dalla Williams-Honda punto di riferimento di quegli anni, fino a regalare nel 1987 la terza iride a Piquet. Poi, per Ayrton, si aprì il ciclo McLaren. Non solo: McLaren motorizzata Honda, ovvero dal turbo strappato proprio alla Williams ritrovatasi improvvisamente due gradini più in basso nella scala per il successo. Il resto è storia non recente, ma indimenticabile: Senna subito iridato nel 1988; quindi battuto dal compagno di squadra Prost non senza un trucchetto nel penultimo GP di stagione ’89, in Giappone; nuovamente trionfante nel 1990 e ’91. E qui, praticamente, si chiude la pagina del Brasile che detta legge in Formula 1.
Con un’appendice, gommata Pirelli. Senna, infatti, debutta nel Circus al GP Brasile 1984 con una Toleman motorizzata Hart e gommata con la P lunga. È sesto e a punti già in Sudafrica, sua seconda gara. Stesso risultato al GP successivo, in Belgio. Poi una di quelle diatribe politiche tipiche della F1 di quei tempi portarono il team inglese a gareggiare con altri pneumatici. Piquet deve a Pirelli le pagine più luccicanti del suo tramonto. Già primo in Canada 1991 con la Benetton gommata P Zero, nell’ultima gara dell’anno vola sul bagnato ad Adelaide, in Australia, guadagnando manciate di secondi a ogni giro sulla McLaren di Senna al comando. Per la P lunga si profila un successo clamoroso in quello che è l’ultimo GP prima del già annunciato ritiro dal Circus. Piquet vola con le P Zero wet ma Senna se ne accorge fin troppo bene: inizia a gesticolare in direzione dei responsabili di gara i quali arrestano la corsa dopo appena 14 giri: 24 minuti e mezzo che ne fanno il GP più breve di sempre. Brasile, Pirelli e il duello fra i due più grandi piloti brasiliani di sempre. Anche questi sono legami…