«Lasciami sottolineare quanto sono contento di vedere come la sicurezza abbia fatto passi da gigante nel nostro sport. Lo dovete scrivere perché è importante e perché viene da un “vecchio”».
Erano i giorni prima di questa pandemia che ha sconvolto il mondo e parte del nostro vivere quotidiano. Riavvolgo il nastro di una conversazione fatta con Beppe Gabbiani in cui ci siamo scambiati qualche pensiero sulla sicurezza delle attuali monoposto di Formula 1. Nostalgia canaglia, scriveva Giorgio Faletti, in una sua fortunatissima rubrica. Nostalgia sì, ma non sicuramente per la sicurezza di allora. Ce lo spiega bene Beppe. E chi, più di lui, soprannominato anche Cavallo Pazzo, potrebbe essere un ottimo difensore della sicurezza del motorsport attuale?
“Si pensa che noi volessimo il rischio per forza. Tutte balle. Avessimo avuto le protezioni di oggi saremmo stati contentissimi. Io posso dirlo perché di uscite di strada ne ho fatte tante, purtroppo. Erano belle botte. Nessuno vuole andare a una gara e vedere piloti farsi male o morire. Io di colleghi morti ne ho visti fin troppi, purtroppo. L’HANS è stato l’introduzione più importante per la sicurezza che si potesse avere nel motorsport. Il nostro collo ballonzolava da tutte le parti. Non era mai fermo. Forse ai miei tempi, con quegli specchietti piccoli e ridicoli, che ti obbligavano a girare la testa per vedere qualcosa con quei pazzi che ti passavano da tutte le parti, avrebbe dato fastidio, ma è stato importantissimo introdurlo. Il primo giorno che ho indossato l’HANS ho capito quanto sia importante. Stai immobile. Non ti muovi più, sei un tutt’uno con la macchina. Sono favorevolissimo anche all’Halo. Non dà fastidio, ti ci abitui subito, dopo poco. Come succedeva a chi indossava il Bell twin window. L’ho indossato, posso confermarlo.
“Chi dice che ora la F1 non è più bella perché manca il pericolo, dice delle cavolate. Andare a 350 km/h in una macchina è sempre e comunque pericoloso. Beati i piloti di oggi che corrono così protetti. Per me poi sono tutti fortissimi. Il piede serve ancora ed è quello che fa la differenza. Non possono assolutamente essere considerati più scarsi perché ci sono meno rischi, oppure perché tanti sono figli di papà, come sento dire. I figli di papà nelle corse ci sono sempre stati. Senna mica era un povero. Veniva da una famiglia ricchissima. Io stesso sono figlio di un industriale. Il problema dei giorni nostri è che forse troppa tecnologia ti fa arrivare prima a certi livelli di pilotaggio, appianando certe differenze durante la crescita. Sogno la sicurezza di oggi, abbinata ai nostri 1000 CV di allora. Sai come ci potremmo divertire? Di sto passo rischiamo che in Europa non freghi più niente a nessuno del motorsport e che i Paesi emergenti si stufino a breve”.
E, a proposito di vecchia guardia, ci lasciamo con un aneddoto old-school che, fortuna sua, è finito molto bene. Nel 1980 Beppe, tra Mondiale Endurance e F2, corre anche nel campionato Procar con la BMW M1 che si svolgeva nei weekend di Formula 1: “A Montecarlo resto per tutta la gara incollato ad Alan Jones. Stiamo lottando per il quarto posto. Lui si difende alla grande, mentre io lo spingo a ogni curva”. Il gesticolare con le mani e l’uso di onomatopee per motore, freni e bussate fanno ben capire quanto ci andasse sotto ad Alan. “Finiamo la gara che lui ha la macchina più corta dietro e io davanti. Quando siamo ai box me ne resto dentro in macchina con il casco in testa. Mi pare di vedere Jones bello furioso. Dovete sapere che Jones aveva due avambracci enormi. Era l’unico, assieme a Mario Andretti, che riusciva a far girare lo sterzo di una F1 da fermo. Scende dalla macchina, viene verso di me e assesta due cazzotti secchi alla capote della mia M1 che si piega fino a toccarmi il casco. Io ho un poco di paura. Alan entra dal finestrino, ma mi fa i complimenti per la bella gara. Quello era lo spirito del tempo. E io ero un ragazzino di soli 20 anni”.
Riccardo Turcato