Vi immaginate, che ne so, un Lando Norris che smette di correre in questo 2023 e nel mentre progetta la McLaren per il Mondiale 2024? L’esempio è questo. Ma è una cosa successa veramente in F1. Purtroppo a ricordarci di questo fatto è una brutta notizia. Ci ha lasciato infatti anche Jean-Pierre Jabouille. Per una triste trama del destino dopo Tambay, Streiff e Ferté dobbiamo salutare un altro pilota d’Oltralpe. Jean-Pierre Jabouille non è stato solo il vincitore del gran premio di Digione 79, quello del duello di Villeneuve-Arnoux. E’ stato un pilota a 360 gradi e oltre. Perché dalle formule minori iniziando nel 1968, per essere campione europeo di F2 nel 1976, alla F1, dove ha ottenuto due vittorie, passando per l’endurance, quattro volte a podio a Le Mans, Jean-Pierre è stato figura importante anche a livello tecnico dirigenziale fuori dall’abitacolo.
Aveva sposato in pieno la causa Renault sobbarcandosi da solo lo sviluppo da zero del motore turbo che lo ha portato dentro domeniche pomeriggio a essere più ritirato che classificato sotto la bandiera a scacchi. Dal 1977 al 1980 alla guida della gialla Renault, ribattezzata teiera dagli inglesi perché sbuffava fumo, vide infatti la bandiera a scacchi solo 9 volte… E due di queste da vincitore. Altri tempi, altra F1, impensabile oggi.
Durante dei test col turbo arrivarono persino a rompere ben 7 motori consecutivamente, un giro, il motore esplodeva, se ne installava un altro, pochi giri, box e ricominciava il tutto. Ma è grazie anche alla sua costanza e volontà di non perdersi d’animo se la Régie è riuscita dai e dai a far funzionare un motore in cui pochi credevano ma che ha alla fine cambiato il volto tecnico degli anni 80 della F1.
Nel 1980 durante il GP del Canada esce di pista e si frattura una gamba. Aveva appena firmato per la Ligier. Il 1981 sarà l’anno in cui darà l’addio alle corse. Salta le prime due gare, poi nelle successive cinque capisce che non può più guidare le monoposto del grande Circus. Non recupererà mai dall’incidente, ma il bello è che in quella stagione resta nel team e assieme a Michel Beaujon disegna la monoposto JS19 per il 1982. Sì, avete capito bene. Ecco il richiamo all’esempio iniziale. Jabouille era ingegnere. Studi che lo avevano aiutato nel ruolo di collaudatore apprezzato da Renault, Alpine, Matra e Peugeot. Studi che lo porteranno poi a succedere a Jean Todt a capo di Peugeot Sport e a tornare in F1 quando il propulsore francese venne montato sulle McLaren di Ron Dennis.
Vorrei ricordare che fu tra i primi piloti a schierarsi per avere auto più sicure a inizio anni 80 tra minigonne ed effetto suolo prima e forme a freccia poi. Giorgio Piola riportò nelle pagine di un famoso settimanale italiano del settore proprio un disegno con le indicazioni di Jabouille dove si rivedevano le forme delle F1 pensando alla sicurezza con miglioramenti alla cellula di sopravvivenza, un abitacolo più comodo per il pilota, seduto più indietro rispetto al musetto frontale, pneumatici scolpiti per diminuire le prestazioni (vi ricorda qualcosa questa idea?) e carenature posteriori per evitare incidenti come quello di Villeneuve o Pironi. Fu tra i primi a chiedere anche l’utilizzo del fondo piatto. E questo nonostante amasse correre con le vetture wing car. Immaginatevi oggi se dei piloti si mettessero li a parlare, disegnare e proporre regolamenti tecnici per le monoposto.
Sono cose che a Netflix non interesserebbero. Invece il motorsport era anche quello. E’ ricordarsi di una figura come quella di Jabouille e quel casco… arancio e blu…
“L’ho disegnato io, doveva ricordare la Francia. All’inizio non era arancione ma rosso. Ma la tonalità arancione non è mai venuta come volevo io in realtà. Sono stato il primo francese a utilizzare un casco chiuso. Era un Bell con visiera fissa. Non vedevo nulla e faticavo a respirare. Poi usai i caschi GPA con cui iniziai un rapporto di assistenza ai gran premi tra l’altro. Quel giorno a Digione tutto era francese. Pilota, macchina, gomme e casco. Peccato che dopo la gara il casco sparì. Qualche fortunato deve averlo ora con sè”.
Riccardo Turcato