“Patrick era un pazzo. Cercava sempre il pericolo, situazione nella quale si sentiva al meglio. Era il peggior nemico di se stesso. Era l’uomo senza paura.
Felice solo quando poteva fare qualcosa di folle” (Jo Ramirez).
Patrick Depailler ci ha lasciati 40 anni fa. Durante una giornata di test sul circuito di Hockenheim, in Germania. Prima una serie di giri di controllo a bassa velocità. Poi torna ai box, dice al suo ingegnere che va tutto bene e riparte. Poi il silenzio. Il perché Depailler sia uscito di pista a 250 km/h alla velocissima Curva Est del tracciato tedesco non è mai stato chiarito veramente. Una sospensione rotta. Una minigonna saltata. Le gomme fredde. Un mancamento momentaneo del pilota causato dalla velocità in curva e dalla forzaG che le wing car imponevano nel corpo e che il dottore che seguiva la Copersucar aveva già diagnosticato in alcuni piloti in altri casi.
Di certo si sa che quel giorno il tracciato non era ancora allestito come per la gara. Niente reti di protezione. Niente gomme. L’Alfa 179 di Depailler si schianta frontalmente contro il guard-rail e si disintegra. I soccorritori che arrivano sul posto si affannano subito a cercare di medicare Patrick alla testa. Nello schianto l’aveva sbattuta contro un montante in ferro a bordo pista e perso la parte inferiore della chiusura del casco GPA. Non si accorgono invece che dal ginocchio in giù è amputato e morirà lentamente dissanguato. Un finale drammatico di carriera per un uomo, un pilota, che ha sempre vissuto al massimo. Che si è sempre speso a ogni corsa. “Se pensassi di rifiutare esperienze solo perché possono essere pericolose, non farei nemmeno delle gare di F1”. Era il suo mantra.
Patrick nel 1980 era appena ritornato alle corse. Durante la stagione 1979 a causa di un incidente in deltaplano si ruppe le gambe in un modo così grave che i dottori pensavano che sarebbe potuto tornare a camminare in due anni. Camminare. Non correre. Gli avevano consigliato di tornare a fare l’odontotecnico. Lavoro che aveva studiato da giovane. Invece dopo 6 mesi, Depailler era in pista, al GP di Argentina. L’Alfa aveva portato Brambilla pronto a sostituirlo nel caso non ce la facesse ma, a parte le difficoltà nelle frenate, Patrick corse tutto il weekend in uno dei più grandi ritorni alle corse che la storia della F1 dovrebbe ricordare. Ma non lo fa. Parlano sempre dei soliti. Come se la F1 fosse diventata grande solo grazie ai nomi che ci propinano a ogni piè sospinto quando si vuole ricordare qualcosa. “È stato terribile stare sdraiato per tanti giorni. C’era anche il rischio di una amputazione a una gamba. Ma sono qua. Ringrazio l’Alfa per la fiducia che mi ha dato. Ho voglia di portarla al successo”.
E ci stava riuscendo Patrick in quel 1980. Passo dopo passo, assieme al compagno Giacomelli, erano riusciti nell’impresa con i tecnici Alfa di migliorare telaisticamente la monoposto per permettere di sfruttare l’ottimo motore. Ironia della sorte, i primi punti mondiali Giacomelli li conquistò proprio in Germania, e nell’ultima gara dell’anno, al Glen, rimase in testa fino quasi alla fine accarezzando il sogno di una vittoria mondiale. Quella pronosticata da Patrick quando in pochi credevano nell’Alfa, e ancora meno in lui.
Il Glen… Era con Montecarlo, Mosport e Clermont-Ferrand tra le sue piste preferite in assoluto. Circuiti per uomini veri. Circuiti icona di un’epoca che piloti proprio come Patrick hanno reso indimenticabile. “Per la pura felicità di guida questi sono i circuiti dove più sento la sfida”. Figure eroiche. Uomini con la U maiuscola. Gente vissuta. Coi calli sulle mani, che andavano a braccetto con la morte sfidandola sapendo che era presente a ogni curva, a ogni minimo errore, ma fregandosene perché stavano amando quel volante tra le mani. Sigaretta in bocca sempre. Una dietro l’altra. Compagne immancabili della figura del pilota francese. Lui che teneva il pacchetto dello sponsor ma dentro aveva le sue preferite: “Io guido una macchina, non corro i 10.000 metri. Se smettessi di fumare poi penserei alle sigarette in gara. Anche il vino mi piace da buon francese”. E le donne. Anche lui come Hunt è stato su Playboy. Oggi manco abbiamo più le grid girls prima dei gran premi, figuriamoci Playboy!
Depailler è stato il primo francese in testa al Mondiale di F1. Ci riusciranno poi solo Laffitte e Prost. Guidava di tutto. Iniziò con le moto, anche autocostruite nel capanno di casa alla luce di una flebile torcia, passando per monoposto e gare endurance. Era eclettico come molti suoi colleghi francesi, non dissimile dal quel Michel Vaillant, pilota eroe d’Oltralpe dei fumetti. Passa alle auto grazie all’aiuto di Beltoise e della Elf. Jean Pierre vide subito che Depailler non solo andava forte, ma era appassionato nel portare al limite una vettura. Fu lui a convincere il padre di Patrick di aiutarlo e assecondarlo verso la F1. Campione di F3 francese nel 1971, nel 72, sempre in F3 vince il GP di Montecarlo, nello stesso weekend in cui l’amico Beltoise vinse un bagnatissimo GP di Monaco con la BRM. Patrick vinse il campionato di F2 nel 1974 dopo essere arrivato terzo nei due anni precedenti. Ebbe meno fortuna nelle gare endurance, meno propenso alla regolarità e più alla velocità, non concluse infatti nessuna delle 8 gare che corse alla 24 Ore di Le Mans.
Debutta in F1 nel 1972 al GP di Francia, con la Tyrrell, grazie all’aiuto dello sponsor Elf che schiererà per lui una terza vettura. Non finirà la gara, ma al Glenn nella sua seconda corsa della carriera arriverà settimo. Fosse stato contemporaneo dei nostri giorni sarebbe andato subito a punti. Ma allora i punti erano affar serio e non li davano a tutti a pioggia come succede ora per fare contenti i team.
Per il 1974 viene scelto con Jody Scheckter come pilota titolare sempre della Tyrrell. Di colpo a fine 1973 la Tyrrell si trova orfana di Cévert che muore al Glen e senza Stewart che si ritira. Ken Tyrrell, che non era l’ultimo arrivato, ha capito l’indole del francese, che nel frattempo si era rotto anche una gamba correndo in moto mentre era impegnato con le monoposto, e gli impedisce per contratto di fare qualsiasi sport al di fuori della F1 che non fossero gare automobilistiche richieste da sponsor.
In Svezia, nel 1974 ottiene la sua prima pole position, alla settima gara in carriera. Sarà secondo in gara. Anche qui, pensate se succedesse oggi. Queste sono cose che purtroppo si dimenticano, che si perdono nella memoria di uno sport che troppo spesso rende visibile i soliti noti, senza guardare dentro se stesso e a tutte le figure che lo hanno reso grande. Nel 1975 raccoglierà un altro podio in Sud Africa. Ma è nel 1976 che Depailler e la Tyrrell entreranno definitivamente nella storia della F1. Dal GP di Spagna in poi.
A Jarama infatti porterà al debutto la Tyrrell P34 a 6 ruote ottenendo uno strepitoso terzo tempo in prova a soli 3 decimi dal poleman Lauda su Ferrari. Jody, a cui la P34 non va proprio a genio, con la vecchia 007 è solo 14° in griglia. La corsa di Depailler finirà per problemi di surriscaldamento dei freni verso metà gara mentre era buon terzo. Ma il binomio resterà indissolubile negli anni a venire. Era pienamente convinto del potenziale della vettura se sviluppato in modo adeguato. “Il problema della P34 risiede nella sua novità. All’inizio dei test era difficile far lavorare il retrotreno con l’avantreno e ci è voluto tempo per trovare il giusto rapporto di sterzo e inoltre mancava sempre un po’ di trazione. Il vero grande vantaggio è sempre stata la velocità di ingresso in curva. La macchina è molto facile da guidare ed è divertente. In Svezia 76 è stato l’unico momento in cui sono stato veramente deluso. La monoposto di Jody andava più della mia ”. Ci teneva a portare alla vittoria la P34. Piu di Jody sicuro, che ha sempre odiato la sei ruote e che lo porterà alla decisione di separarsi da Tyrrell a fine 76. Sarà terzo a Montecarlo, secondo in Svezia e Francia, poi ancora secondo in Canada e terzo in Giappone.Chiuderà il Mondiale al quarto posto con 39 punti.
Depailler non si è mai rassegnato nel svilupparla la P34 e ne ha sempre preso le difese, anche nel 77, che vide lo stravolgimento di molti concetti base della monoposto e una stagione non all’altezza delle tante aspettative. “E’ stata dura per me rendermi conto fin dai primi test del 77 che la vettura non era in grado di lottare per il Mondiale. Goodyear non aveva sviluppato le gomme e Ken non aveva soldi abbastanza per riprogettare da capo la monoposto. Sono andato più veloce in gara di Peterson e ho ottenuto più punti, ma a che pro?”. Sarà terzo in Sud Africa,
secondo in Canada e di nuovo terzo nell’ultima gara al Fuji in Giappone, dove per l’occasione sale sul podio da solo. Il vincitore James Hunt e il secondo classificato Carlos Reutemann infatti scappano all’aeroporto per prendere il primo aereo disponibile. Patrick invece decide di rimandare la partenza: “L’ultimo podio per la P34 va festeggiato per ricordare questa vettura. Si chiude un’era”.
Dopo una lunga serie di podii, si prese finalmente la sua personale rivincita a Montecarlo nel 1978 vincendo alla grande il gran premio, ma con la normale Tyrrell 008, tornata alle quattro ruote. Poteva vincere già in Sud Africa a inizio anno, ma all’ultimo giro finisce la benzina dando via libera a Peterson su Lotus. I numeri per Patrick sono sempre stati menzogneri. Ma poco importa. Siamo qui apposta a scrivere queste righe per rendergli onore.
“E’ fantastico vincere il mio primo GP, specialmente qui a Montecarlo. Per tutto il tempo pensavo che qualcosa si sarebbe rotto e che avrei terminato la corsa come in altre occasioni, invece via via la macchina è diventata sempre meglio. Non ho dovuto nemmeno regolare la valvola dei freni”. Guardate Montecarlo 1978. Vi hanno sempre parlato di Schumacher, Senna, Hamilton e della loro guida tra le stradine del Principato, ma vi consiglio vivamente di guardare quel gran premio e ammirare la guida di Depailler quel giorno. Poesia tra muretti e cordoli in un tutt’uno di immagini perfette tra location, uomo e macchina.
Poteva vincere di più Depailler? Forse si. L’anno giusto sembrava essere il 1979 con il passaggio dalla Tyrrell alla Ligier. Ligier che aveva nella monoposto JS11 una vettura capace di vincere le prime due gare iniziali con Laffite e di mettere pressione alle Ferrari. Dopo essere stato secondo in Brasile, Depailler vincerà in modo perentorio in Spagna a Jarama, in testa dal primo giro.
“La Ligier JS11 era un’ottima macchina. Nei gran premi europei avevamo trovato la quadra allo sviluppo. Non c’era un primo e secondo nella squadra, logico, Laffite era da sempre nel un team, ma non c’erano ordini di scuderia”. Purtroppo però Guy Ligier non fece come Ken Tyrrell e lasciò libertà a Patrick di fare quello che voleva al di fuori delle piste. Prima del GP di Francia, durante un’uscita in deltaplano, il pilota francese si schianta e si frattura le gambe e il femore. Licenziato da Ligier che non credeva potesse tornare a essere il pilota di prima, Depailler riceve delle timide offerte da Williams e Brabham, più che altro per tornare come collaudatore, ma alla fine fu convinto dal progetto dell’Alfa Romeo.
“Sono contento di aver scelto l’Alfa anche se mi cercavano Williams e Brabham. Alfa era all’inizio dell’avventura in F1 (dopo gli anni 50, ndr) e io ero a un mio nuovo re-inizio. Non mi pento della scelta. Non sarei in grado di sfruttare da subito una vettura che punti al Mondiale. La 179 è una vettura laboratorio da far crescere passo passo. Il motore è fantastico. Una bella sfida. Bisogna rischiare per vincere. Chiti è formidabile, come Cuoghi con cui ho l’onore di lavorare. Vado d’accordo con Giacomelli. E’ un buon sviluppatore. Sento molta fiducia in me da parte dei vertici Alfa”. Quei vertici che proprio in Germania volevano prolungargli il contratto di altri due anni.
Ma Patrick era pazzo come diceva Jo Ramirez oppure no? Di sicuro non lo ricorderemo come un docile timorato della vita. Al giornalista inglese Nigel Roebuck, pochi giorni prima di morire, durante un’intervista disse: “Sono coraggioso. Ma non sono pazzo. Prendi le attuali monoposto. Perché nessuno fa niente? Le velocità in curva sono aumentate troppo. Le nuove monoposto a effetto suolo sono sicure in caso di impatto laterale, ma in caso di impatto frontale sono scandalosamente indecenti. Erano più sicure quelle prima dell’era wing car, non capisco perché non si imponga ai costruttori di lavorare su questo. I circuiti andrebbero comunque aggiornati in base alle capacità velocistiche delle attuali monoposto”.
Parole pesanti se lette dopo quello che successe in Germania. Quando un grande se ne va, qualcosa cambia. Successe con Clark prima. Poi Rindt. E’ successo con Senna. Anche con Depailler. Non solo si iniziò a modificare i tracciati. In Germania ad esempio apparvero le chicane a interrompere il feroce ritmo velocistico del tracciato di Hockenheim, ma anche le vetture ad effetto suolo vennero limitate, fino all’abolizione nel 1983. Iniziarono i primi crash test. Quella scarpa rimasta sull’asfalto rovente di quel primo agosto di 40 anni fa, distante dal corpo di Patrick intrappolato tra le lamiere, smosse le coscienze. “Corro per il piacere di guidare e cercare di vincere. La tuta non la voglio come un albero di Natale. Non mi interessano i soldi. Non posso perdere tempo con tanti sponsor per guadagnare più denaro, non mi interessa. Voglio vincere”.
Depailler al suo fianco ha avuto piloti velocissimi. Grandi campioni più blasonati e più inneggiati. Scheckter, Stewart, Cévert, Pironi, Laffite, il giovane Giacomelli, Peterson. Eppure lui non ha mai sfigurato, è sempre stato al loro livello. E’ arrivato il momento di dare i giusti onori di una grande carriera a Depailler. I numeri a volte mentono. Quello che si è visto in pista mai. Châpeau Patrick.
Riccardo Turcato