Essere paragonato ad Ayrton Senna, per un pilota di oggi, attribuisce una valutazione che va oltre il valore specifico. Supera grandezze quali la capacità di guida, la stessa velocità. Significa ricevere il biglietto d’ingresso a quella ristretta cerchia di uomini capaci, con un volante in mano, di andare al di là delle capacità tecniche del loro mezzo. Vale il passaporto all’orbita ancora più ristretta di chi dribbla gli sgambetti del pericolo perché, in alcuni momenti, il pericolo non è un problema primario: farci i conti non vale la pena. Ma ancora non basta. Essere paragonati a Senna sfiora una sensazione di ultraterreno. Ipotizza una ragione, di quell’andare così veloce, tanto oltre il limite logico, che soltanto un legame lontano, segreto, può giustificare.
Senna capiva che le domande su certe sue condotte in pista andavano oltre il cronometro. Chiedergli ragione di certe sue gesta in pista veniva spontaneo. E lui ci giocava: ti guardava con quel suo sguardo spesso lontano, rispondeva con un sorriso quasi imbarazzato come a dire ‘E come potrei spiegartelo?…’.Oggi il nuovo Senna è Max Verstappen. Il ragazzino della Red Bull, talento tanto rapidamente riconosciuto da consentirgli di debuttare nei Gran Premi prima ancora di avere l’età della patente, ha concluso il Mondiale 2016 con l’incredibile prestazione sul bagnato in Brasile. Con un finale di una gara assolutamente oltre il limite, marchiato da traiettorie tutte sue e sorpassi ad avversari anche celebri (Vettel?) che sembravano birilli, Max sembrava semplicemente di un’altra categoria. Ma già in qualche occasione precedente, nel corso della stagione, aveva suggerito questa valutazione. Quando, ad esempio, fece uno sgarbo talmente evidente – e in punto a massima velocità- a Raikkonen e arrivando a giustificarlo a GP concluso con un lapidario ‘Se l’è meritato: alla prima curva mi aveva rovinato la gara’. Ecco: questa sensazione di essere oltre le leggi comuni, di potersi consentire un metro di giudizio al di là dei regolamenti, era di Senna. E oggi, pare, è del giovane Verstappen. Ad accomunarli: una missione per conto di Dio, per scherzarci su scimmiottando i Blues Brothers all’inizio del mitico film omonimo. Correre, correre, correre. E vincere. E tutti gli altri, per favore: farsi da parte…Ma ora lasciamo in pace Max Verstappen: è giovanissimo, ha un intero mondo davanti, disegnerà la sua storia e i suoi successi. Torniamo a Senna. Perché proprio lui? Perché, con una storia delle corse di Formula 1 gremita di grandi personaggi e di piloti velocissimi, è ancora a questo campione brasiliano, ventidue anni dopo la sua morte, che vola il ricorda di chi ama le corse? La risposta, volendo condensare moltissimo, è abbastanza semplice: perché non voleva correre; doveva correre. Non voleva vincere: doveva vincere. Fin da ragazzino, tutta la sua persona era votata a questo traguardo. Fin dai kart con i quali -come quasi tutti- si fece le prime esperienze in pista, presto vincendo a ogni livello. Quindi nelle Formule preparatorie alla F1, dove debuttò nel 1984 con una Toleman che non era proprio un fulmine di guerra, ma con la quale Ayrton regalò un quasi miracolo a Montecarlo, recuperando manciate di secondi al giro al già consacrato Alain Prost con la sua McLaren quell’anno dominante. Ci volle una bandiera a scacchi sventolata anzitempo da un solerte direttore di gara, certamente per caso francese come Prost, per rubargli una vittoria che l’avrebbe proiettato negli annali subito, immediatamente. Con la pioggia e con Montecarlo Senna maturò un legame speciale. Con l’asfalto bagnato fu questione di formazione: il giovane Ayrton si sentiva debole sull’acqua e iniziò uno studio particolare che lo portò, qualche anno più tardi, a diventare il meastro assoluto su questo tipo di superficie. Con il tracciato del Principato fu una semplice questione di feeling. Abusando un po’ con i luoghi comuni, a Montecarlo il circuito e il casinò obbediscono alla stessa regola: pari o dispari, rosso o nero, fortuna o disastro. Automobilisticamente parlando, con quei guard-rail ad avvolgere la pista su entrambi i lati, la differenza è fra sfiorare le barriere e sbatterci contro. Senna, a quei rail, si appoggiava. Li usava come membrana di contenimento, da toccare qual tanto che bastava per non fare danni meccanici; ma anche per non lasciare inesplorato l’ultimo millimetro di circuito. Per lui, quel budello fra le lamiere diventava un tunnel cieco: dentro, il tempo da segnare; fuori, il mondo, che in quei momenti perdeva ogni interesse. Rivelatore è un video on-board registrato dall’abitacolo della sua McLaren nel corso delle qualifiche 1989. Youtube lo propone ancora: sembra un filmato accelerato, se non fosse per quella mano destra che piroetta continuamente fra il volante e la leva del cambio e fa capire che la velocità di tutto è folle, ma reale. “Dal box mi dicevano di rallentare, che la pole era già mia -raccontò poi Ayrton-. Ma per me era impossibile: potevo soltanto continuare, curva dopo curva, cambiata dopo cambiata. Sentivo di essere sempre più veloce e non potevo fermarmi…”.Di nuovo per riassumere: Senna dalla velocità era posseduto. Era una sfida personale, prima che contro gli altri piloti, prima che per vincere o ottenere una pole position. Il suo era un confronto personale con il concetto di velocità, con le sue barriere logiche. Barriere da abbattere, non importa che cosa si trovasse sulla sua strada. Fino al paradosso di Alain Prost tamponato a freddo alla prima curva a Suzuka durante il Gran Premio del Giappone 1990 (sua ammissione, un anno dopo) perché in quel modo quel titolo iridato sarebbe stato suo matematicamente. Una decisione, confidò in un sussurro davanti a una platea di giornalisti allibiti, che gli era stata autorizzata da Dio. Ecco perché, pur con qualche scivolata oltre il limite, essere come Senna significa di più, molto di più che essere veloci o super-veloci. Essere come Senna è una categoria dello spirito.
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