Rigidezza e leggerezza. Gli inglesi la definiscono “black art”, arte nera. Il tracciato inglese di Silverstone è legato a molti avvenimenti storici per il grande Circus e la vittoria di John Watson, nel GP del 1981, ne è parte integrante come primo passo verso la Formula 1 del futuro che conosciamo oggi.
La McLaren Mp4/1 passerà alla storia come la prima monoposto con telaio in carbonio a vincere un GP iridato. L’idea nasce dal genio di John Barnard e dalla spinta della Marlboro che incentiva la McLaren a studiare qualcosa di innovativo per uscire da una crisi tecnica e sportiva che non la vedeva al vertice dal 1978. Siamo in piena epoca di effetto suolo. Le forze di risucchio a terra, generate dalla forma delle fiancate ad ala rovesciata sigillate dalle minigonne delle monoposto, hanno portato i telai in Avional e pannelli di honeycomb a torsioni e carichi meccanici al limite della tecnologia disponibile.
John Barnard decide di rischiare tutto con una tecnologia di derivazione aeronautica e mai utilizzata prima in F1. Progetta la prima scocca di una monoposto in carbonio che ha la specificità di essere una struttura leggera, resistente e rigida allo stesso tempo. Gli ostacoli iniziali sono stati molti per Barnard. In primo luogo capire come distribuire in modo corretto le fibre di carbonio perché venissero poi cotte in autoclave. L’ottimale disposizione delle fibre di carbonio era necessaria al fine di non creare parti deboli che in caso di urti tendevano a scheggiarsi facilmente. Barnard trova in un giovane tecnico del team McLaren l’aggancio giusto per risolvere tutti i problemi di produzione delle scocche in carbonio. Appena assunto dalla McLaren, ora sotto al comando di Ron Dennis, il tecnico Steve Nichols prima di arrivare in Inghilterra aveva lavorato per la società aerospaziale americana Hercules e propose a Barnard di collaborare con quella industria. Il binomio McLaren-Hercules funzionò a meraviglia, tanto da incentivare Barnard a costruire anche le fiancate e gli alettoni in carbonio. Senza Nichols, la McLaren non sarebbe mai arrivata alla Hercules e in Inghilterra in quel periodo non c’erano disponibili industrie di tale livello.
Tempo fa, grazie a una diretta podcast di un famoso mensile britannico, ho avuto la fortuna di poter chiedere a Watson quale fu la differenza nel trovarsi a guidare una macchina in carbonio. La sua risposta è stata la seguente: “Per prima cosa la differenza fu adattarsi al posto di guida. Con le vetture in alluminio quando eri nell’abitacolo i gomiti strisciavano sulla scocca ma l’alluminio stesso cedeva sotto la pressione e si adattava. Con le scocche in carbonio no. All’inizio stretto nell’abitacolo faceva molto male sbattere con i gomiti contro la scocca in carbonio che era rigidissima. Era stata studiata apposta per quello. E si notò subito la differenza alla guida. La vettura a effetto suolo era ora perfetta perché non torceva piu’”.
Watson poi aggiunse: “Molti team provarono subito a sperimentare la tecnologia del carbonio ma non capirono subito come disporre le fibre del materiale perché avessero subito la giusta rigidità, e questo portò anche a molti incidenti. Il mio incidente di Monza, e i tanti avuti da Andrea de Cesaris in quell’anno, fecero comprendere a tutti che la tecnologia costruttiva del futuro passava per il carbonio. Dobbiamo ricordare l’importanza che ha avuto per la F1 questa trovata di Barnard che influenzò poi la sicurezza e la costruzione delle monoposto del futuro”.
Oggi quando guardiamo una gara di motorsport diamo per scontato l’elemento carbonio nella costruzione di una vettura. Ma è incredibile pensare che, oltre all’intuizione stessa di Barnard, se la Marlboro non avesse minacciato di lasciare la McLaren, e senza la presenza di Nichols come gancio con l’azienda Hercules, il carbonio magari avrebbe fatto più fatica e avrebbe impiegato più tempo a imporsi come tecnologica necessaria nel modo delle corse.